Juan Arias è un grande giornalista spagnolo. In Italia, dove ha vissuto per tanti anni, è famoso per soprattutto per un libro pubblicato con la casa editrice cattolica Cittadella, Il Dio in cui non credo.
Una settimana fa ha scritto un lungo articolo pubblicato da El pais e poi su Internazionale di questa settimana, sulla condizione del nostro paese. Lo riporto integralmente perché merita davvero molto.
Ho vissuto in Italia più che in Spagna: circa 50 anni. A questo paese che, secondo l’Unesco, riunisce il 36% dell’arte di tutto il pianeta, devo molto sia umanamente che culturalmente.
In Italia, dove studiai, dove ho respirato per la prima volta l’aria pura della libertà – arrivando dal paese della censura, delle condanne a morte arbitrarie, dell’inesistenza dei partiti politici – mi diedero la cittadinanza per meriti culturali.
Lì votai per la prima volta nella mia vita. Avevo più di 40 anni. In Spagna non si votava, si viveva solo nel terrore. Ricorderò sempre quella mattina quando potei inserire la mia scheda elettorale nel segreto dell’urna. Il mio voto, mi dissero, ne valeva mille. Erano elezioni in cui gli italiani iniziavano a stancarsi dei politici, e questo invitava all’astensione. La Rai mi intervistò chiedendomi cosa provava uno spagnolo che poteva votare per la prima volta. Parlai della mia evidente emozione e osai chiedere a coloro che intendevano disertare le urne che andassero a votare come a risarcirmi per non averlo potuto fare a mia volta per così tanti anni. Dalla radio, in seguito, mi telefonarono per dirmi che migliaia di persone, comprese famiglie intere, volevano che io sapessi che erano andate a votare per me.
In Italia ho potuto pubblicare quello che nel mio paese non mi era consentito. Riviste e quotidiani mi hanno aperto le loro porte. Ho goduto del privilegio di conoscere e intervistare i personaggi della letteratura e dell’arte che in quel periodo facevano grande il paese di Dante e Leonardo, scrittori come Fellini, Pasolini, Sciascia, Italo Calvino; stilisti come Valentino, Armani, Missoni; grandi imprenditori come Agnelli o Pirelli; magnifici editori come Einaudi o Feltrinelli… e politici degni come Berlinguer o Moro, o giudici capaci come Falcone, con il quale parlai alcuni mesi prima che fosse assassinato. Durante il mio incontro con il giudice Falcone eravamo circondati da un sacco di polizia armata fino ai denti e di sirene: “E’ tutta scena. Quando la mafia deciderà, mi uccideranno lo stesso” mi disse il magistrato partendo con un mezzo sorriso triste. Lo uccisero. Quella era un’Italia che io amavo appassionatamente e nella cui lingua scrissi i miei primi libri. Fino a che arrivò Silvio Berlusconi. Lo vidi atterrare a Palermo, capoluogo della Sicilia, cuore della mafia, in elicottero, come un dio pagano. Era alla sua prima candidatura. In pochi credevano che quell’istrione, che mai aveva avuto a che fare con la politica, in un paese tanto politicizzato come l’Italia potesse vincere.
Io scrissi sul mio quotidiano che sarebbe stato eletto. Vidi quel giorno a Palermo quasi mezzo milione di persone alzare le braccia verso l’elicottero che portava il Salvatore. La mafia siciliana aveva cambiato bandiera. Abbandonava la potente Democrazia Cristiana, fino ad allora la sua signora, per offrire il bacio e il suo voto all’imprenditore di cui si diceva che avesse l’arte magica di creare posti di lavoro dal nulla. Da quel giorno l’Italia iniziò ad entrare nel tunnel della decadenza. Io me ne tornai in Spagna.
Ora vedo, come in un incubo, che gli italiani, che a me avevano dato il piacere della libertà di informazione e di espressione, devono leggere El Pais per poter conoscere le spudoratezze compiute dal loro Cavaliere.
Dov’è quell’Italia che il mondo ammirava e amava?
L’Italia mi difese quando il governo del dittatore Franco voleva processarmi per aver pubblicato un articolo che riguardava il comportamento della Chiesa spagnola durante la dittatura militare. Mi convocarono a Madrid. Fui ricevuto dall’allora ministro Giron, a casa sua. Mi disse che un ministro aveva portato il mio articolo al Consiglio dei Ministri chiedendo la mia testa. Al termine del Consiglio, Franco si limitò a chiamare il ministro Giron e gli disse: “Lascia vivo questo ragazzo, altrimenti andiamo a farne un martire in Italia. Però chiamalo e raccontagli cosa è successo”. Era un avviso chiaramente mafioso.
Così era allora in Spagna. Così è oggi, o quasi, in Italia.
Nelle mie notti insonni mi chiedo come sia potuta avvenire una tale metamorfosi. Come si sia arrivati a questa triste Italia di oggi. Posso solo farmi alcune domande partendo dalla mia lunga esperienza italiana. Perché Berlusconi vinse la prima volta, quando già circolava un libro che raccontava i suoi misfatti e le illegalità commesse come impresario edile a Milano? Perché, quando erano al potere, i socialisti di Bettino Craxi, che finì la sua vita in esilio ricercato per corruzione, permisero a Berlusconi di creare il suo impero televisivo contro tutte le norme della Costituzione? Che fecero, o cosa non fecero, i comunisti, eredi del severo e onorato Berlinguer, quando dopo più di 40 anni di lotte per avere il potere lo raggiunsero e lo gestirono cosi' male che gli italiani preferirono eleggere Berlusconi? In che cosa furono ingannati gli italiani? Perche' persero cosi' velocemente l’essenza di quel che era stato il maggior partito comunista d’Europa, che riuniva sotto le sue ali e proteggeva dalla mediocrita' della destra tutta l’intelligenza, l’arte e la cultura del paese? Un partito, insisto, che aveva come leader un Berlinguer sempre timido e schivo, come doveva essere un figlio dell’austera Sardegna, però onesto, rispettato e tanto amato. Il giorno della sua morte si paralizzò la citta' di Roma e due milioni di persone si riversarono per le strade come se la squadra nazionale di calcio avesse vinto il mondiale.
A quel tempo ero un critico severo dell’allora potente Democrazia Cristiana, che da 40 anni deteneva il potere e che fini' travolta dagli scandali per la sua corruzione. Oggi, a tanti anni di distanza, devo riconoscere che quello che vedo ora è peggio. Ed è davanti agli occhi di tutti. La Democrazia Cristiana, profondamente conservatrice, aveva, comunque, un profondo rispetto per la libertà di espressione dei giornalisti.
Conservo ancora alcuni biglietti, scritti con la calligrafia grande di Fanfani o quella minuta di Andreotti, entrambi piu' volte a capo del Governo. Ogni volta che pubblicavo un articolo critico rivolto all’uno o all’altro, arrivava al mio ufficio un motociclista che mi portava uno di questi biglietti, dove mi ringraziavano per quello che avevo scritto su di loro.
Quando la Spagna stava per entrare nell’Unione Europea, il ministro degli Affari Esteri italiano era Andreotti. Nella ambasciata italiana a Madrid, alcuni piu' realisti del re decisero di analizzare i miei articoli, concludendo che ero eccessivamente critico nei confronti dei politici italiani. Chiamarono l’ambasciatore spagnolo a Roma e, con evidente atteggiamento mafioso, gli ricordarono che l’assenso dell’Italia era fondamentale per l’entrata della Spagna nella Comunita' Europea e che i miei articoli non piacevano. La notizia arrivò alle orecchie di Andreotti, del tutto ignaro della vicenda. Quella mattina mi chiamò per offrirmi un’intervista. Mi ricevette a braccia aperte. Non si parlò della faccenda. Mi raccontò aneddoti inediti sul suo rapporto con papa Giovanni Paolo II. Mi disse che il Papa polacco a volte lo invitava a pranzo o a cena, e ad assistere con lui alla messa nella sua cappella privata. Prima di congedarmi mi autografò un libro con queste parole: “Al mio caro collega giornalista Juan Arias, con amicizia”. Andreotti si vantava sempre di essere un giornalista professionista. E sulla porta mi disse. “La Spagna sarà molto importante nella Comunità europea. Io voterò a favore”. Lo ha fatto. Andreotti, ciò nonostante, soleva dire che i politici spagnoli mancavano di “finezza” (in italiano nel testo. NdR).
Tristemente, questa “finezza” oggi manca a tanti politici italiani, a partire dal suo presidente e dalla sua corte faraonica, a cui l’informazione libera provoca orrore e panico.
Forse non è vero che agli italiani piace tanto Berlusconi - per lo meno agli italiani che conosco io - e forse è vero che non piacciono loro nemmeno gli altri politici. A questi altri io diedi il primo voto della mia vita. Come direbbe Saramago: Triste cosa.
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