La tecnologia rientra a pieno titolo tra i fattori primari dell'economia. Peccato che poi, quando si partecipa ai dibattiti si senta sempre la stessa musica. Troppe tasse, troppa burocrazia, ritardi nelle infrastrutture, ristrettezze nel credito, legislazione del lavoro troppo rigida sono i temi ricorrenti. Infine, per condire il tutto si parla del bisogno di maggiore innovazione, e così l'insalata è pronta.
Per carità, tutto vero. Peccato che solo raramente, e in fondo, un po' come Cenerentola, si indica anche il "digital divide".
Quella che stiamo attraversando è l'epoca della complessità e della condivisione. Due termini che fanno venire l'orticaria a molti economisti classici. Per così tanto tempo siamo stati abituati ad affrontare le cose nella loro specificità, che pensare diversamente proprio non ci riesce. Un esempio perfetto è quello del piccolo imprenditore che nei decenni passati aveva una bella idea e la faceva fruttare grazie al proprio ingegno e operosità. Nel nostro territorio ci sono valanghe di esempi di aziende davvero fantastiche. Alcune però sono passate dall'essere considerate modelli alla cessazione dell'attività perché la crisi le aveva divorate.
La complessità è una brutta bestia, e solo da poco intellettuali di vario genere si ritrovano ad analizzarla in chiave contemporanea e guardando al futuro senza aver la tentazione di gettare la spugna.
La condivisione è anche peggio per l'economia. Non c'è abitudine perché in fondo l'impresa, e con lei l'imprenditore, ha sempre pensato di essere il centro del mondo. La governance aveva caratteristiche precise e c'erano rappresentanze chiare e definite. In questo contesto irrompe il digitale che rivoluziona la realtà:modificando profondamente il concetto di spazio e tempo, spingendo fortemente verso l'apertura dei mercati e diventando una leva potente dell'economia finanziaria, costringendo i cittadini a cambiare le proprie abitudini con una velocità a cui non erano abituati.
Nascono e muoiono tante imprese, le prime perché capaci di cogliere le opportunità, le altre perché incapaci di capire che i cambiamenti di paradigma sono mortali se ci si contrappone anziché analizzarli e seguirne i corsi.
E veniamo al lavoro. È illusorio pensare di avere le ricette per rilanciare da subito l'occupazione con operazioni semplici. Una cosa però è chiara: tra i problemi del sistema economico italiano quello del "digital divide" è tra i più pericolosi, ma anche quello dove si può fare ancora molto, e anche in fretta.
Ognuno può fare la propria parte e sul nostro territorio abbiamo eccellenze notevoli. Perché non pensare di formare da subito centinaia di giovani destinati all'inserimento nelle aziende con procedure snelle e con step (stage, tirocini, collaborazioni a contratto, ecc) perché svecchino tutta la parte tecnologica e inizino a gestire le attività sui social network?
Avremmo, tra l'altro, una gigantesca rete di esperienze e di relazioni che andrebbero proprio nella direzione di quell'era della condivisione che tutti, consapevolmente o meno, stiamo vivendo.
Una proposta che non è certo la panacea di tutti i mali, ma intanto avremmo l'avvio di una ripresa del dato occupazionale, con un reale investimento sui giovani e sui processi davvero innovativi. Sul territorio ci sono esperienze e soggetti per poter fornire da subito le gambe a idee di questo tipo.
Basta volerlo.
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