martedì 1 maggio 2012
La fine della cultura secondo Vargas Llosa
Il trionfo dello spettacolo ha distrutto la cultura. L’ultimo libro di Mario Vargas Llosa, La civilizaciòn del espectàculo, appena uscito, e ancora disponibile solo in spagnolo, sta già facendo discutere molto anche in Italia.
L’autore peruviano, premio Nobel per la letteratura nel 2010, analizza la società dell’inizio del nuovo millennio e arriva a conclusioni amarissime. La sua idea è che il mercato prendendo come leva la volontà di allargare la partecipazione alla cultura, ne abbia invece decretata la sua morte.
Vargas Llosa prende spunto da alcuni autori del passato per iniziare a riflettere sulla condizione attuale. I suoi primi punti di riferimento sono T. S. Eliot, Popper, Trilling, Steiner e altri. Intercala analisi attuali con suoi articoli apparsi per lo più tra la fine del Novecento e il 2011 su El Pais, parlando della cultura, dell’educazione, dell’erotismo, della politica e della religione.
La sua idea è che la cultura “alta” sia stata demolita non per allargare (cosa secondo lui non reale) ai ceti più popolari, ma per permettere solo la spettacolarizzazione del tutto.
“La nostra epoca, conforme alla pressione della cultura dominante, che privilegia l’ingegno all’intelligenza, l’immagine alle idee, l’umorismo alla serietà, la banalità alla profondità, la frivolezza alla serietà non permette più di avere creativi come Bergman, Visconti o Bunuel. Oggi Woody Allen ha preso il loro posto nel cinema. Come Andy Warhol ha preso quello di Gaugin o Van Gogh nella pittura e Dario Fo quello di Checov o Ibsen nel teatro”.
La trasformazione dell’idea stessa di cultura permette tutto questo secondo Vargas Llosa.
“La nozione di cultura si è estesa così tanto che, sebbene nessuno lo vuole ammettere, questa è sfumata. Si è trasformata in un fantasma elusivo con molte facce. Perché se ora nessuno è colto, tutti credono di esserlo grazie al fatto che il contenuto di quello che chiamano cultura si è così svuotato che tutti possono davvero credere di esser colti”.
Vargas Llosa lamenta la fine della figura degli intellettuali. E come dargli torto? Un sistema mediatico potente esalta ogni giorno chi grida e fa sensazionalismo piuttosto che riflessioni profonde che richiedono studi, profondità e serietà.
Peccato però che la sua analisi, seppur provocatoria e precisa, se la prende con tutti quelli che hanno provato a teorizzare un cambiamento uscendone però sconfitti. Nel mirino finisce principalmente Michel Foucault e con lui il maggio francese del ’68. L’effetto finale fu quello del trionfo totale del Gollismo.
La fine della cultura ha decretato anche l’impoverimento della “scuola pubblica che era un poderoso strumento di mobilità sociale”.
Vargas Llosa vede in ogni settore una perdita secca. In due pagine demolisce l’arte contemporanea convinto che siamo di fronte a “una curiosa inversione di tendenza dei valori: la teoria come interpretazione arriva a sostituire l’opera d’arte fino a convertire la sua ragione stessa di essere. Così il critico diventa più importante dell’artista che era il vero creativo. La teoria giustifica così l’opera d’arte che esiste perché sia interpretata dal critico, è come un’ipostasi della teoria”.
Nelle ultime pagine l’autore parla dei propri sentimenti e scala di valori. “Sono cosciente delle mancanze della mia formazione e durate tutta la mia vita ho provato a supplire a queste studiando, leggendo, visitando musei e gallerie, frequentando biblioteche e partecipando a conferenze e concerti. Nel è stato un sacrificio. Anzi, è stato un grande piacere scoprire come si allargava la mia mente comprendendo Nietzsche, Popper o leggendo Omero o decifrando l’Ulisse di Joyce, gustando la poesia di Baudelaire, T.S. Eliot, esplorando l’universo di Goya, Rembrandt, Picasso, Mozart, Maheler, Ibsen, Brecht che mi hanno allargato incredibilmente la fantasia, i miei appetiti e la mia sensibilità”.
Vargas Llosa arriva però a un punto in cui la sua età e formazione fanno emergere tutta l’amarezza anche se con qualche spazio alla speranza. “Confesso che ho poca curiosità per il futuro. Invece mi interessa molto il passato e ancora di più il presente che resta incomprensibile senza di quello. In questo periodo abbiamo innumerevoli cose migliori dei nostri antenati però in campo culturale stiamo retrocedendo e senza rendercene conto, principalmente a causa dei prodotti più colti. Per fortuna però la storia non è determinata dal fato ed è come una pagina bianca dove con la propria penna, con le nostre decisioni e omissioni, scriveremo il futuro. Questo è bene perché significa che siamo sempre in tempo per correggerci”.
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