Fisico e passato da rugbysta. Dagli spalti ancora il desiderio di scendere in campo e buttarsi dentro la mischia. Una sola regola rigida: nessuna birra prima delle undici. Da quello sport e dallo scoutismo Giori Ferrazzi ha attinto a piene mani per la propria formazione umana fatta di responsabilità,
solidarietà e spirito di servizio.
Oggi, da cinque anni, vive a Managua, capitale del Nicaragua, uno degli stati più poveri del continente americano, ma fucina straordinaria di storie ed esperienze. Coordina Terre des hommes, una Organizzazione non governativa che si occupa di bambini e ragazzi.
A Varese Giori, malgrado gli oltre trent’anni in giro per il mondo, è ancora oggi un personaggio. Iniziò il suo impegno nella cooperazione internazionale in India con i lebbrosi nel lontano 1977.
Come mai quella scelta che poi avrebbe caratterizzato gran parte della tua vita?
«Tutto ha origini dagli scout. Dopo quella prima esperienza, scelsi di fare il servizio civile internazionale. A quell’epoca non c’era ancora la possibilità dell’obiezione di coscienza. Così dal 1978, per due anni, andai in Ecuador con i Comboniani. Quando tornai in Italia cambiai il mio piano di studi e da medicina passai a lingue. In quel periodo ho fatto di tutto: ho insegnato religione, lavorato per una biblioteca e altro. Nel frattempo iniziai a partecipare alla messa a punto di un progetto che partì nel 1985 in Perù per la Pontificia Università Cattolica. Due anni dopo ero lì per dirigere il centro di educazione e cultura di pace all’interno dell’ateneo. Un’esperienza straordinaria a cui hanno partecipato decine di personaggi anche italiani. Facevamo formazione a maestri in attività. Quando l’Ong che lavorava al progetto lasciò il Perù, io decisi invece di restare. Vinsi tre concorsi all’Università e inizia ad insegnare».
Nel frattempo il matrimonio con Susanna, l’arrivo del primo figlio Vittorio Augusto e appena nato Gian Antonio la scelta di andare in Nicaragua. Come mai?
«Una coincidenza. Io do molta importanza alle coincidenze perché sono un segno preciso nella nostra vita e non arrivano per caso. Avevo conosciuto il responsabile di Terre des hommes proprio mentre stavo facendo una riflessione personale sulla mia vita. In Perù avevo avviato la federazione del rugby diventandone presidente, avevo alcuni ristoranti, vivevo bene, ma sentivo lontane le ragioni che mi avevano portato in America Latina. Così quando mi offrirono di andare in Nicaragua ci pensai, ne parlai con la mia famiglia e dopo poco partimmo».
E come è andata?
«La premessa per me è che la cooperazione arriva da una scelta di servizio e l’America Latina è solo casuale. Dopo tanti anni di esperienza pensi di conoscere tutto e invece arrivare in Nicaragua significò ricominciare da capo. A volte rifletto come ci sia una presunzione da parte di noi europei. L’America Andina non è quella centrale e del resto sarebbe come dire che un danese è come un portoghese. Ricominciare è stato molto bello e importante. Mi ha fatto riscoprire le ragioni del fare e non solo dell’essere».
Politicamente eretico. Non hai mai nascosto le tue simpatie per l’estrema destra, quella sociale, quella sempre vista come la più brutta e pericolosa. Ma come fa uno così a stare in giro per il mondo a fare il cooperatore?
«La risposta richiede una riflessione che parte da lontano. Per la destra, a partire da Valle Giulia (uno degli episodi simbolo del ’68 con gli scontri tra la polizia e il movimento studentesco romano), non ci fu più spazio. Lì successe qualcosa di profondo. Si ruppe un movimento che lottava per cambiare il mondo e nacque la teoria degli opposti estremismi. Quando smetti di parlare, di dialogare, di riflettere non ti capisci più. Tutti noi giovani in quegli anni abbiamo guardato alle cose solo dalla propria parte e ci guidava un’ideologia di sistema che ancora oggi vige».
Va bene, ma questo non spiega come fa uno di estrema destra a stare nella cooperazione...
«La mia posizione fa riferimento alla destra sociale e non a quella liberale. Sono profondamente contrario al liberismo che ha fatto sfaceli a non finire e in questi paesi se ne vedono i segni e le ferite profonde. Però non sono per un egualitarismo assoluto come vorrebbe la sinistra. Credo nel merito e a me offende profondamente vedere che non tutti hanno le stesse opportunità. Questo è terribile ed è la molla al mio fare cooperazione. Se uno ha le opportunità e non le vuole usare sono fatti suoi, ma se non gli vengono date non va bene e occorre battersi perché cambi questa condizione».
Come è la cooperazione degli altri paesi?
«All’estero nasce tutto dopo di noi ed è improntata alla tecnica, alla professionalità. Noi nasciamo dentro l’esperienza delle comunità dove gli ultimi sono presi sul serio e ascoltati. Non esportiamo solo saperi. Un esempio di questo modo di operare sono proprio i Comboniani, che sono chiamati ad andare dove altri non vogliono andare».
Che idea hai del Nicaragua così tanto amato anche in Italia in quanto rivoluzionario?
«Letto da uno che crede che il passato è presente, dipende da come lo si vuol guardare e analizzare il Nicaragua. Per me si è fermato nel suo passato e non si sono superate le divisioni. Non c’è una politica di condivisione, ma molte incomprensioni che portano a esercitare pressioni su chi non la pensa come te. C’è difficoltà a camminare insieme. Questo purtroppo nasconde una realtà molto ricca e bella. Le donne qui sono straordinarie. Lavorano e si occupano con responsabilità della famiglia e dei figli. Spesso anche da sole reagiscono e costruiscono un progetto per loro e le persone vicine. Ci sono storie commoventi».
Qual è lo stato di salute della cooperazione internazionale in questo momento?
«C’è da tempo un’inversione di tendenza pericolosa. Ci si dedica più a quello che sanno fare gli esperti piuttosto che a risolvere i veri bisogni. Questo dipende dal fatto che troppo spesso le decisioni vengono prese in luoghi dove non ci sono le persone che vivono la realtà del paese. Arrivano esperti sempre più teorici e legati al pacchetto preconfezionato e incapaci di ascoltare le reali esigenze. Per fortuna a Terre des hommes non è così».
Com’è il rapporto della tua Ong con l’Italia?
«Ottimo perché per noi è fondamentale il sostegno delle famiglie italiane ai nostri progetti. Noi diamo conto rispetto al bambino che viene seguito. Vengono date informazioni puntuali e si instaura un vero rapporto».
E il tuo rapporto con l’Italia?
«Io credo che il tema fondamentale per chi sceglie la cooperazione sia la non fuga. Chi la sceglie perché non saprebbe cos’altro fare dovrebbe lasciare. Troppi sono in questa condizione. Non avrei paura a dovermi rimettere in gioco e lasciare quanto sto facendo per rientrare in Italia».
E come si vive la famiglia in contesti così diversi dal proprio paese?
«Ci sono vantaggi oggettivi e il rapporto familiare è più stretto. La famiglia è davvero il pilastro della propria vita. Io ho la fortuna di avere una moglie che apprezza e ed è partecipe delle scelte».
Qual è l’esperienza più bella?
«È il tema della libertà di pensare, proporre, fare e realizzare. Siamo lontani da quel clima che si è generato in Italia dove sembra che niente più sia possibile. Sia in Perù che qui in Nicaragua, malgrado i tanti e gravi problemi, ho potuto progettare e fare».
E l’esperienza più brutta?
«La violenza, quella “machista”, quella verso le persone più vulnerabili. La mancanza di attenzione verso chi soffre. La violenza gratuita non è giustificabile ma comprensibile per la ragioni sociali ed economiche, ma da un senso di impotenza. In questi paesi ci sono opportunità immense e non smetto di stupirmi che ci sia così tanta violenza».
1 commento:
Grande Giori, anche se condivido solo in parte, o molto probabilmente ho mal compreso, l'eccesso di comunitarismo che sembra pervadere il tuo approccio.
Tieni presente che ho una visione simile, ma guarda caso ho sviluppato un bel progetto di appoggio istituzionale perchè penso sempre che lo stato debba farsi vedere.I difetti e i rischi li conosciamo più che bene entrambi.Ma tanto fa...Luca
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