La storia si ripete. Davide, un gruppo di muchachos di un barrio tra i più poveri della città, sfida Golia, i ragazzini del centro don Bosco, e vince.
Rigoberto sorride felice quando mi racconta la sua storia e la storia di quelle partite di calcio, o futbol come lo chiamano qui in Nicaragua.
Lui era un ragazzino quando trionfò la rivoluzione e venne cacciato Somoza. Aveva solo 11 anni e da lì a poco sarebbe partito per Cuba per studiare. Si dedicò allo sport e una volta tornato a Managua iniziò a far giocare un gruppo di muchachos.
"Volevo fare un lavoro sociale, non mi bastava pensare solo allo sport. Il futbol era un modo per aggregare i ragazzi e farli sentire una squadra. Noi non avevamo nemmeno il campo per giocare perché in inverno si allagava tutto e così usavamo ogni piccolo spazio, ma avevamo la passione e la volontà di vincere". E vinsero.
Una storia degna del racconto di Edoardo Galeano che, come altri scrittori latino americani, tanto ha amato il futbol da scriverne più volte. Il calcio è anche salvezza.
«La storia del calcio è un triste viaggio dal piacere al dovere. A mano a mano che lo sport si è fatto industria, è andato perdendo la bellezza che nasce dall'allegria di giocare per giocare. In questo mondo di fine secolo, il calcio professionistico condanna ciò che è inutile, ed è inutile ciò che non rende. E a nessuno porta guadagno quella follia che rende l'uomo bambino per un attimo, lo fa giocare come gioca il bambino con il palloncino o come gioca il gatto col gomitolo di lana. Il gioco si è trasformato in spettacolo, con molti protagonisti e pochi spettatori, calcio da guardare, e lo spettacolo si è trasformato in uno degli affari più lucrosi del mondo, che non si organizza per giocare ma per impedire che si giochi. La tecnocrazia dello sport professionistico ha imposto un calcio di pura velocità e forza, che rinuncia all'allegria, che atrofizza la fantasia e proibisce il coraggio. Per fortuna appare ancora sui campi di gioco, sia pure molto di rado, qualche sfacciato con la faccia sporca che esce dallo spartito e commette lo sproposito di mettere a sedere tutta la squadra avversaria, l'arbitro e il pubblico delle tribune, per il puro piacere del corpo che si lancia contro l'avventura proibita della libertà».
Rigoberto è uno di quei protagonisti che tiene aperta la speranza di un riscatto possibile. Lo è per quelle vittorie sui campi da gioco, ma lo è anche per il forte impegno sociale e civile nella sua Nicaragua. Oggi, 43enne con sei figli, quattro "mujeres" e due "varon", la più grande di 26 anni, è direttore dell'Afd, un'associazione per la promozione sociale. Collabora con Terre des hommes su diversi progetti tra cui quello de Los Guatuzos. "Vado dove c'è bisogno e per me stare con i ragazzi e la gente è il lavoro più importante".
Gli resta comunque nel cuore quel ricordo dei suoi muchachos, senza divisa, poco abituati alle porte regolari, al terreno perfetto e agli schemi, che una volta scesi in campo battono i "campioni". E l'avventura della libertà si leva in volo.
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