Ci sono parole che non vanno molto d’accordo tra loro. Nell’ultima settimana al centro di molte notizie, insieme a crisi è apparsa spesso la parola austerità.
Era dall’inizio degli anni settanta che non si sentiva così tanto pronunciare. Allora ebbe un epilogo nelle domeniche senza auto in cui si cercava di dare una risposta alla crisi energetica.
Oggi è legata al debito che sta mettendo in ginocchio interi stati e che fa interrogare tanti su quale sarà il futuro.
Combinare l’esigenza della ripresa economica e della crescita con quella di una condivisa austerità non è semplice. Non aiuta per niente la memoria perché i processi di cambiamento di questi anni sono stati rapidi e travolgenti. Siamo passati da un’economia materiale a una sempre più immateriale dove sono le relazioni a fare la differenza.
Le persone hanno paura di perdere i diritti acquisiti in anni di fatiche e sacrifici e in questo quadro ogni risposta individuale è completamente inadeguata.
L'austerità che si chiede per affrontare la crisi va bene se è accompagnata da piani di sviluppo chiari e da regole più serie che incentivano gli investimenti in innovazione, scuola, ricerca, connessioni e infrastrutture.
Questo richiede un cambio di rotta a tutti i livelli. Si prenda ad esempio l’innovazione. Spesso è vista un po’ come il coniglio che esce dal cilindro di un prestigiatore che, quando deve pensare a un nuovo esercizio, usa un numero che ha sempre il suo effetto. L’innovazione è figlia invece di un atto di ribellione che non accetta più quanto già esiste e crede sempre possibile un miglioramento.
Vale in tutti i campi ed è uno dei motori forti dell’economia. Oggi ha una sua contraddizione però perché è vista spesso come legata a filo doppio alla competizione. Occorre rimettere in discussione questa idea perché innovare non per forza significa spingere in quella direzione. In un mondo globalizzato le risposte individuali di una volta sono inadeguate e serve invece maggiore cooperazione.
Viviamo un’epoca di cambiamenti fondamentali dal punto di vista culturale, non più semplicemente tecnologici. La cultura si muove conoscendo la tecnologia ma digerendola, imparando a conoscerne le conseguenze, arrivando a guidare il processo non a subirlo.
Abbiamo bisogno di credere che il futuro è nelle idee e che non è un risultato di qualcosa di ignoto, ma il prodotto di quello che stiamo facendo e pensando adesso.
In un periodo florido e di crescita questo è più facile, ma è proprio durante queste crisi che serve vedere le cose con l’idea del cambiamento.
Il nostro paese può avere le carte in regola ma la politica deve essere la prima a crederci e l'austerità va bene a condizione che non si disperdano risorse in varie forme di corruzione, evasione fiscale e lavoro nero. Ne abbiamo di strada da fare.
lunedì 17 maggio 2010
La giusta ribellione
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento