"Io non so cosa ho capito di tutto ciò, - scrive Gianni Biondillo alla fine del percorso, - non so a cosa sia servito: so che dovevo farlo. So che mi è piaciuto, che nella sua disorganizzazione dilettantesca sarà per me irripetibile. Ma era proprio lo spirito da cialtroni che ci ha accompagnati che gli ha dato sapore e che non potrà essere replicato".
E per fortuna viene da dire. E per fortuna poi che c'era Biondillo, che almeno ha arricchito le pagine di riflessioni e qualche analisi. Fosse stato per Monina ci saremmo fermati a sapere che ovunque c'è una via Di Vittorio, che le tangenziali sono costeggiate di tanti cimiteri, che non sopporta culattoni e froci e che dei campi rom non gliene frega un cazzo (espressioni e dichiarazioni tutte sue).
Del resto il libro si poteva anche chiudere a pagina 51, risparmiandoci le altre 250, per ammissione sincera dello stesso Biondillo. "Perché per Michele la questione non si poneva: qualunque luogo visitassimo era «un posto di merda». Punto. Aveva una teoria preventiva, ogni suo passo, ogni suo sguardo, doveva solo confermagliela". Viene da chiedere a Biondillo cosa se lo sia portato dietro a fare. Non un'analisi, ma solo esercizio di bella scrittura (non sempre).
"Io non ho alcuna teoria prestabilita, - continua Biondillo, - solo curiosità. E forse anche indulgenza, non lo so. Desidero capire il senso delle cose, anche in luoghi che paiono l'emblema dello sfacelo. separare il grano dal loglio, la bellezza dall'inferno. Riconoscere, quanto meno, cosa è inferno e cosa è bellezza. Provarci".
E questo salva il libro da un secco tre. Lo salvano alcuni dati e alcune analisi che Biondillo fa grazie alla sua esperienza come architetto. Milano appare così sullo sfondo con alcuni spunti interessanti anche se appena abbozzati.
Un libro, come dicevo, quasi inutile e brutto anche nelle fotine alla fine di ogni tappa. Se la psicogeografia deve esser questa, meglio lasciar stare.
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